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il Che 45 anni fa

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view post Posted on 12/10/2012, 08:09     +1   -1




45 anni fa moriva ucciso nella sierra boliviana Ernesto Guevara detto Che.
Pochi ricordano questa ricorrenza perchè Guevara è stato un personaggio scomodo sia per la destra che per la sinistra e la sua icona ormai va bene solo per alcune curve nord o per le t-shirt indossate da chi del Che non ha mai saputo niente o poco.
Dice che era un bell'uomo (e non veniva dal mare) e questo indubbiamente ne a ingigantito l'appeal unito al fascino di chi lotta e muore giovane per un ideale quale che sia.

Il valore della sua politica e della sua azione non ha ormai più bisogno di essere sottolineato anche se è forte la tendenza a farne un "santino" buono per tutti gli usi. Per omaggiarlo in questa giornata pubblico uno dei suoi scritti "inediti" (tratto dal sito www.antoniomoscato.altervista.org) che costituiscono l'oggetto del "Che inedito" di Antonio Moscato pubblicato da Edizioni Alegre.

“Alcune riflessioni sulla transizione socialista” (Ernesto Che Guevara)

Marx individuava due fasi per arrivare al comunismo, la fase di transizione, detta anche socialismo o prima fase del comunismo, e il comunismo, o comunismo pienamente sviluppato. Partiva dall’idea che il capitalismo nel suo complesso sarebbe giunto alla completa rottura una volta raggiunto uno sviluppo in cui le forze produttive si sarebbero scontrate con i rapporti di produzione, ecc. ed intravide la cosiddetta prima fase socialista sulla quale non si è soffermato a lungo, ma che nella Critica al Programma di Gotha descrive come un sistema in cui sono soppresse alcune categorie mercantili, frutto del fatto che la società completamente sviluppata è passata alla nuova fase.

Poi viene Lenin, la sua teoria dello sviluppo diseguale, la teoria dell’anello debole e la sua realizzazione nell’Unione Sovietica, con cui si instaura una nuova fase non prevista da Marx. Prima fase di transizione, o fase della costruzione della società socialista, che si trasforma poi in società socialista per passare ad essere definitivamente la società comunista. I sovietici e i cecoslovacchi pretendono di aver superato questa prima fase; io credo che oggettivamente non sia così, dal momento che ancora esistono una serie di proprietà private in Unione Sovietica e, sicuramente, in Cecoslovacchia.

Tuttavia, la cosa importante non è questa, ma che non si è creata l’economia politica di tutta questa fase e che quindi non è stata studiata. Dopo molti anni di sviluppo della sua economia in una determinata direzione, hanno trasformato una serie di fatti palpabili della realtà sovietica in presunte leggi che sorreggono la vita della società socialista, e credo che stia qui uno degli errori principali. La cosa più importante, secondo la mia concezione, si instaura però nel momento in cui Lenin, sotto la pressione dell’immenso cumulo di pericoli e di difficoltà che si addensavano sull’Unione Sovietica, dal fallimento di una politica economica che era estremamente difficoltoso portare in un’altra direzione, ritorna sui propri passi ed introduce la NEP, tornando a riaprire la porta a vecchi rapporti di produzione capitalista. Lenin si basava sull’esistenza di cinque stadi nella società zarista, ereditati dal nuovo Stato.
Ciò che è indispensabile sottolineare è l’esistenza di due Lenin (forse tre), completamente differenti: quello la cui storia finisce specificamente nel momento in cui finisce di scrivere le ultime righe di Stato e Rivoluzione, in cui dice che è molto più importante farla che parlarne, e quello successivo che deve affrontare i problemi reali. Noi indicavamo che probabilmente c’era una fase intermedia di Lenin, in cui non aveva ancora rivisto tutte le concezioni teoriche che avevano guidato la sua azione fino al momento della rivoluzione. In ogni caso, dal 1921 in avanti, e fino a poco prima della sua morte, Lenin inizia il percorso che conduce alla creazione della NEP e che porta l’intero paese ai rapporti di produzione che configurano quello che Lenin chiamava il capitalismo di Stato ma che in realtà si può anche chiamare capitalismo premonopolistico rispetto all’ordinamento dei rapporti economici. Nelle ultime fasi della vita di Lenin, se si legge attentamente si nota una grande tensione; c’è una lettera molto interessante al Presidente della Banca in cui Lenin ironizza su presunti profitti di questa ed avanza la critica dei pagamenti tra imprese e dei guadagni tra imprese (carte che passano da una parte all’altra). Questo Lenin, angosciato tra l’altro dalle divisioni che scorge nel partito, non ha fiducia nel futuro. Pur essendo una cosa del tutto soggettiva, ho l’impressione che se Lenin fosse vissuto per dirigere il processo di cui era il protagonista principale e che teneva completamente nelle sue mani, avrebbe via via modificato con notevole rapidità i rapporti instaurati dalla Nuova Politica Economica. Molte volte, nell’ultimo periodo, si parlava di copiare alcune cose dal capitalismo, ma in quel momento nel capitalismo erano in auge certi aspetti dello sfruttamento, ad esempio il taylorismo, che oggi non ci sono; in realtà, il taylorismo non è diverso dallo stacanovismo, puro e semplice lavoro a cottimo o, per meglio dire, lavoro a cottimo rivestito di una serie di orpelli, e quel tipo di remunerazione fu scoperto nel primo piano dell’Unione Sovietica come un’invenzione della società sovietica.



(parte prima)
 
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view post Posted on 13/10/2012, 13:04     +1   -1




(parte seconda)

Il fatto vero è che tutta l’impalcatura giuridico- economica dell’attuale società sovietica parte dalla Nuova Politica Economica; in essa si conservano i vecchi rapporti capitalistici, restano le vecchie categorie del capitalismo, esiste cioè la merce, esiste, in certo modo, il profitto, l’interesse riscosso dalle banche ed esiste, naturalmente, l’interesse materiale diretto dei lavoratori. A mio modo di vedere, tutto questo impianto, tutto questo appartiene a quello che potremmo chiamare, come ho già detto, un capitalismo premonopolistico. Nella Russia zarista, le tecniche di direzione e la concentrazione di capitali non erano ancora così grandi da consentire lo sviluppo dei grandi trust. Erano ancora nell’epoca delle fabbriche isolate, delle unità autonome, praticamente una cosa che è impossibile ritrovare, ad esempio, nell’odierna industria nordamericana. Oggi cioè, negli Stati Uniti ci sono solo tre società che producono automobili: la Ford, la General Motors e l’insieme di tutte le piccole imprese – piccole rispetto a quello che sono gli Stati Uniti – che si sono unite tra loro per cercare di sopravvivere. Niente di simile accadeva nella Russia dell’epoca, ma quale è il difetto di fondo dell’intero sistema? Il fatto che limita la possibilità dello sviluppo attraverso la concorrenza capitalistica, ma non ne liquida le categorie né ne introduce altre di carattere superiore. L’interesse materiale individuale era l’arma capitalistica per eccellenza, che oggi si pretende di ergere a categoria fondamentale di sviluppo, limitato però dall’esistenza di una società in cui non si ammette lo sfruttamento. In queste condizioni, l’essere umano non sviluppa tutte le sue fantastiche capacità produttive, né si sviluppa esso stesso come costruttore cosciente della nuova società.
E, per essere coerenti con l’interesse materiale, questo si instaura anche nella sfera improduttiva e in quella dei servizi [...].

Probabilmente è questa la spiegazione, quella dell’interesse materiale dei dirigenti, principio della corruzione, ma che è in ogni caso coerente con l’intera linea di sviluppo adottata, in cui l’incentivo individuale finisce per diventare l’asse motore, perché è lì, nell’individuo, che con l’interesse materiale diretto si cerca di aumentare la produzione o l’efficienza.

Il sistema, per altro verso, conosce ostacoli seri per la sua automaticità; la legge del valore non può giocare liberamente perché non ha un libero mercato in cui competano produttori redditizi o meno, efficienti o inefficienti, e i secondi spariscano per inanità. È indispensabile garantire una serie di prodotti, di prezzi, alla popolazione, ecc. e se si decide che la redditività debba essere generalizzata per tutte le unità, si cambia il sistema dei prezzi, si stabiliscono nuovi rapporti e si perde completamente quello con il valore del capitalismo che, indipendentemente dalla fase monopolistica, mantiene ancora la sua caratteristica di fondo di farsi guidare dal mercato e di essere una specie di circo romano in cui vincono i più forti (in questo caso i più forti sono quelli che possiedono una tecnica più elevata). Tutto questo è andato producendo lo sviluppo vertiginoso del capitalismo e una serie di nuove tecnologie completamente distanti dalle vecchie tecniche di produzione. L’Unione Sovietica confronta il proprio progresso con gli Stati Uniti e dice che si produce più acciaio che in quel paese, ma negli Stati Uniti non c’è stata paralisi dello sviluppo. Che cosa succede, allora? Semplicemente che l’acciaio non è ormai il criterio fondamentale di misura dell’efficienza di un paese, perché c’è la chimica, l’automatizzazione, ci sono i metalli non ferrosi e, a parte questo, va anche vista la qualità degli acciai. Gli Stati Uniti producono meno, ma producono grandi quantitativi di acciaio di qualità molto superiore. La tecnologia è rimasta relativamente stagnante, nella stragrande maggioranza dei settori economici sovietici. Come mai?
 
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view post Posted on 15/10/2012, 20:02     +1   -1




(parte terza)
Perché si è dovuto creare un meccanismo e renderlo automatico, stabilire le regole del gioco, in cui il mercato non opera più con la sua implacabilità capitalistica, ma i meccanismi che sono stati concepiti in sostituzione sono fossilizzati e di lì parte il disordine tecnologico. Manca l’ingrediente della concorrenza, che non è stato sostituito; dopo i brillantissimi successi che ottengono le nuove società grazie allo spirito rivoluzionario dei primi momenti, la tecnologia smette di essere il fattore propulsivo della società. Questo non avviene nel settore della difesa. Perché? Perché è un ramo in cui non esiste la redditività come norma di rapporto e in cui tutto è strutturalmente messo al servizio della società per realizzare le principali creazioni dell’uomo per la sua sopravvivenza e per quella della società in formazione. Qui, però, il meccanismo torna a mostrare falle; i capitalisti tengono l’apparato della difesa saldamente legato a quello produttivo, visto che si tratta delle stesse società, di affari gemelli e tutti i principali progressi realizzati nella scienza bellica si trasferiscono immediatamente nella tecnologia della pace e i beni di consumo compiono salti di qualità davvero giganteschi.

In Unione Sovietica non avviene niente di tutto questo, si tratta di due compartimenti stagni e il sistema di sviluppo scientifico del settore militare serve molto limitatamente per quello civile.
Questi errori, giustificabili nella società sovietica, la prima ad avviare l’esperimento, si trapiantano in società ben più sviluppate, o semplicemente diverse, e si arriva a un vicolo cieco provocando reazioni degli altri Stati. Il primo paese a ribellarsi è stato la Jugoslavia, seguita poi dalla Polonia e in questa direzione stanno andando la Germania e la Cecoslovacchia, lasciando da parte per le sue particolari caratteristiche la Romania. Che cosa succede? Si rivelano ostili al sistema, ma nessuno ha indagato dove stia la radice del male; lo si attribuisce alla pesante tara burocratica, all’eccessivo accentramento degli apparati, si lotta contro la loro centralizzazione e le imprese ottengono una serie di vittorie e un’autonomia sempre crescente nella lotta per un libero mercato.

Chi si batte per questo? Lasciando da parte gli ideologi e i tecnici che, da un punto di vista scientifico, analizzano il problema, le stesse unità produttive, le più efficienti, rivendicano la loro indipendenza. La cosa somiglia straordinariamente alla lotta che conducono i capitalisti contro gli Stati borghesi che controllano determinate attività. I capitalisti concordano che lo Stato debba avere qualcosa, e questo qualcosa sono i servizi nei quali non si guadagna o che servono all’intero paese, ma tutto il resto deve stare in mani private. Lo spirito è lo stesso; oggettivamente, lo Stato comincia a diventare uno Stato che tutela i rapporti tra capitalisti. Naturalmente, per misurare l’efficienza si sta utilizzando in misura crescente la legge del valore, che è la legge fondamentale del capitalismo; è la legge che accompagna, che è intimamente connessa alla merce, cellula economica del capitalismo. Acquisendo la merce e la legge del valore le loro piene attribuzioni, si produce il riassetto dell’economia in accordo con l’efficienza dei diversi settori e delle diverse unità e quei settori e quelle unità che non sono abbastanza efficienti spariscono.

Si chiudono fabbriche ed emigrano lavoratori jugoslavi (ed ora polacchi) verso i paesi dell’Europa occidentale in piena espansione economica. Sono schiavi che i paesi socialisti inviano come offerta allo sviluppo economico del Mercato Comune Europeo.

Noi pretendiamo che il nostro sistema raccolga le due linee di fondo del pensiero da seguire per arrivare al comunismo. Il comunismo è un fenomeno di coscienza, non vi si arriva mediante un salto nel vuoto, una trasformazione della qualità produttiva o il semplice scontro tra forze produttive e rapporti di produzione. Il comunismo è un fatto di coscienza e occorre sviluppare tale coscienza nell’essere umano, di cui l’educazione individuale e collettiva al comunismo è una parte ad esso consustanziale. Non possiamo parlare in termini quantitativi economicamente; forse potremmo essere nelle condizioni di pervenire al comunismo entro alcuni anni, prima che gli Stati Uniti siano usciti dal capitalismo. Non possiamo misurare in termini di risorse pro capite la possibilità di entrare nella fase comunista; non esiste una totale coincidenza tra queste risorse e la società comunista. La Cina ci metterà centinaia di anni per avere il reddito pro capite degli Stati Uniti. Pur considerando che il reddito pro capite sia un’astrazione, se si misura il salario medio degli operai nordamericani, anche tenendo conto dei disoccupati, dei negri, quel tenore di vita è talmente elevato che alla maggior parte dei nostri paesi costerà molto raggiungerlo. Eppure, ci stiamo incamminando verso il comunismo.

L’altro aspetto è quello della tecnica; coscienza più produzione di beni materiali è comunismo. Bene, ma che cos’è la produzione se non lo sfruttamento sempre maggiore della tecnica; e che cos’è lo sfruttamento sempre maggiore della tecnica se non la concentrazione sempre più favolosa di capitali, cioè una concentrazione crescente di capitale fisso o lavoro congelato rispetto al capitale variabile o lavoro vivo. È il fenomeno che si sta manifestando nel capitalismo sviluppato, nell’imperialismo. L’imperialismo non è crollato grazie alla sua capacità di estrarre profitti, risorse, dai paesi dipendenti, e di esportarvi conflitti, contraddizioni, grazie all’alleanza con la classe operaia degli stessi paesi sviluppati contro l’insieme di quelli dipendenti. Nel capitalismo sviluppato ci sono i germi tecnici del socialismo ben più che nel vecchio sistema del cosiddetto calcolo economico, a propria volta erede di un capitalismo ormai superato in sé e che è stato però preso a modello dello sviluppo socialista.

Dovremmo, in fondo, guardare nello specchio in cui si stanno riflettendo una serie di tecniche produttive corrette che non sono ancora entrate in urto con i relativi rapporti di produzione. Si potrebbe argomentare che non lo hanno fatto per l’esistenza di questo sfogo che è l’imperialismo su scala mondiale, ma in definitiva questo implicherebbe alcune correzioni nel sistema e noi riprendiamo solo le linee generali. Per dare un’idea della straordinaria differenza pratica che c’è oggi tra il capitalismo e il socialismo si può citare il caso dell’automazione; mentre nei paesi capitalistici questa avanza fino ad estremi veramente vertiginosi, nel socialismo sono molto più arretrati. Si potrebbe parlare della serie di problemi che affronteranno i capitalisti nell’immediato futuro a causa della lotta dei lavoratori contro la disoccupazione, un fatto a quanto pare esatto, ma quel che è sicuro è che oggi il capitalismo si sviluppa su questa via più rapidamente del socialismo.

La Standard Oil, ad esempio, se ha bisogno di riammodernare una fabbrica, la ferma e dà ai lavoratori una serie di compensazioni. La fabbrica sta ferma un anno, installa i nuovi impianti e riprende con maggiore efficienza. Che cosa succede, finora, in Unione Sovietica? All’Accademia delle Scienze di quel paese si sono accumulati centinaia e forse migliaia di progetti di automatizzazione che non si possono tradurre in pratica perché i dirigenti delle fabbriche non si possono permettere il lusso che il loro piano stia fermo per un anno e trattandosi di un problema di realizzazione del piano a una fabbrica automatizzata richiederebbero una maggiore produzione, e allora in sostanza non le interessa l’aumento della produttività. Chiaro che la cosa si potrebbe risolvere dal punto di vista pratico concedendo maggiori incentivi alle fabbriche automatizzate; si tratta del sistema Libermann e dei sistemi che si stanno cominciando a impiantare nella Germania Democratica, ma tutto questo indica il livello di soggettivismo in cui si può cadere e l’assenza di precisione tecnica nel manovrare l’economia. Bisogna subire molti duri colpi della realtà per cominciare a cambiare; e cambiare sempre l’aspetto esteriore, quello più vistosamente negativo, ma non la sostanza reale delle difficoltà che ci sono oggi, e cioè una concezione sbagliata dell’uomo comunista, basata su una lunga esperienza che tenderà e tende a fare dell’uomo un fattore numerico di produzione economica tramite l’asse portante dell’interesse materiale.

Nella parte tecnica, il nostro sistema cerca di prendere quanto i capitalisti hanno di più avanzato e deve perciò tendere alla centralizzazione. La centralizzazione non equivale a un assoluto; per farla in maniera intelligente bisogna lavorare in accordo con le possibilità. Si potrebbe dire, centralizzare per quanto lo permettano le possibilità; questo guida la nostra azione. Questo consente un risparmio amministrativo, di manodopera, consente una migliore utilizzazione degli impianti avvalendoci di tecniche conosciute. Non si può fare una fabbrica di scarpe che, installata all’Avana, distribuisce il prodotto all’intera repubblica, perché in mezzo c’è un problema di trasporto. L’impiego della fabbrica, la sua dimensione ottimale dipendono dagli elementi di analisi tecnico-economici. Cerchiamo di arrivare ad eliminare, per quanto possibile, le categorie capitalistiche, per cui non consideriamo un atto mercantile il transito di un prodotto per fabbriche socialiste. Perché questo sia efficace dobbiamo operare l’intera ristrutturazione dei prezzi. Queste cose le ho pubblicate,[2] per cui non ho altro da aggiungere a quel poco che abbiamo scritto, salvo che dobbiamo indagare parecchio su questi punti.
In sintesi, eliminare le categorie capitalistiche: merci tra imprese, interesse bancario, interesse materiale diretto come asse, ecc. e riprendere gli ultimi progressi amministrativi e tecnologici del capitalismo, questa è la nostra aspirazione.

Ci si può dire che tutte queste nostre presunzioni equivarrebbero anche a pretendere di avere qui, perché ce l’hanno gli Stati Uniti, un Empire State ed è ovvio che non possiamo avere un Empire State, ma possiamo certamente avere molti dei progressi che presentano i grattacieli nordamericani e le loro tecniche di costruzione, pur facendoli più piccoli. Non possiamo avere una General Motors che ha più impiegati dell’intero Ministero dell’Industria nel suo insieme, ma possiamo avere un’organizzazione, e di fatto la abbiamo, simile a quella della General Motors. Sul problema della tecnica amministrativa sta influendo la tecnologia; tecnologia e tecnica di amministrazione sono andate cambiando di continuo, intimamente connesse nel corso del processo di sviluppo del capitalismo, laddove nel socialismo si sono scisse come due diversi aspetti del problema ed uno di essi è rimasto completamente statico. Quando si sono resi conto dei grossolani errori tecnici nell’amministrazione, cercano nei dintorni e scoprono il capitalismo.

Insistendo, i due problemi di fondo che ci affliggono, nel nostro Sistema di Bilancio, sono la creazione dell’uomo comunista e la creazione dell’ambiente materiale comunista, due pilastri che stanno uniti attraverso l’edificio che debbono sorreggere.
C’è una grossa lacuna nel nostro sistema; come integrare l’uomo al suo lavoro in maniera che non sia necessario ricorrere a quello che chiamiamo il disincentivo materiale, come far sì che ogni operaio senta l’esigenza vitale di sostenere la sua rivoluzione e che il suo lavoro, al tempo stesso, sia un piacere; che senta quello che noi tutti sentiamo qui in alto.

Se è un problema di campo visivo e soltanto chi ha la missione, la capacità del grande costruttore può interessarsi al lavoro che fa, saremmo condannati al fatto che un tornitore o una segretaria non lavorerebbero mai con entusiasmo. Se la soluzione stesse nella possibilità di sviluppo di questo stesso operaio in senso materiale, staremmo molto male.

Quel che è certo è che oggi non esiste una piena identificazione con il lavoro e credo che parte delle critiche che ci fanno siano ragionevoli, anche se non lo è il loro contenuto ideologico. E cioè: ci si rivolge la critica che i lavoratori non partecipano alla confezione dei piani, all’amministrazione delle unità statali, ecc., il che è vero, ma ne ricavano la conclusione che questo si debba al fatto che non sono materialmente interessati ad esse, che sono ai margini della produzione. Il rimedio che si ricerca per questo è che gli operai dirigano le fabbriche e siano responsabili di queste dal punto di vista monetario. che abbiano i loro incentivi e disincentivi d’accordo con la gestione. Credi stia qui il nocciolo della questione; per noi è sbagliato pretendere che gli operai dirigano le unità; nessun operaio deve dirigere le unità, uno tra tutti come rappresentante degli altri, se si vuole, ma rappresentante di tutti rispetto alla funzione che gli si assegna, alla responsabilità o all’onore che gli si conferisce, non come rappresentante di tutta l’unità di fronte alla grande unità dello Stato, in forma contrapposta. In una pianificazione centralizzata, corretta, è molto importante l’impiego razionale di ciascuno dei distinti elementi della produzione e la produzione che si farà non può dipendere da una assemblea di operai o dal criterio di un operaio. Naturalmente, quanto minor conoscenza vi sia nell’apparato centrale e nei vari livelli intermedi, l’intervento degli operai dal punto di vista pratico è molto utile.

Questo è un dato reale, ma la nostra pratica ci ha insegnato due cose secondo noi assiomatiche; un quadro tecnico ben collocato può fare ben di più di tutti gli operai di una fabbrica, e un quadro dirigente collocato in una fabbrica può cambiare completamente le caratteristiche di questa, in un senso o nell’altro. Gli esempio sono innumerevoli, e ormai li conosciamo nell’intera economia e non solo in questo Ministero. Torna a riproporsi ancora una volta il problema: perché un quadro dirigente può cambiare tutto? Perché fa lavorare tecnicamente, vale a dire amministrativamente meglio l’intero complesso dei suoi impiegati, o perché offre partecipazione a tutti gli impiegati in modo che questi sentano uno spirito nuovo, provino un nuovo entusiasmo lavorativo, o per il combinarsi di entrambe le cose? Noi non abbiamo ancora trovato risposta e credo che la cosa vada ancora studiata un po’ di più. La risposta deve essere intimamente connessa all’economia politica di questa fase e anche il modo in cui si affrontano queste questioni deve essere organico e coerente con l’economia politica .

(fine)
 
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2 replies since 12/10/2012, 08:09   22 views
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