| (parte terza) Perché si è dovuto creare un meccanismo e renderlo automatico, stabilire le regole del gioco, in cui il mercato non opera più con la sua implacabilità capitalistica, ma i meccanismi che sono stati concepiti in sostituzione sono fossilizzati e di lì parte il disordine tecnologico. Manca l’ingrediente della concorrenza, che non è stato sostituito; dopo i brillantissimi successi che ottengono le nuove società grazie allo spirito rivoluzionario dei primi momenti, la tecnologia smette di essere il fattore propulsivo della società. Questo non avviene nel settore della difesa. Perché? Perché è un ramo in cui non esiste la redditività come norma di rapporto e in cui tutto è strutturalmente messo al servizio della società per realizzare le principali creazioni dell’uomo per la sua sopravvivenza e per quella della società in formazione. Qui, però, il meccanismo torna a mostrare falle; i capitalisti tengono l’apparato della difesa saldamente legato a quello produttivo, visto che si tratta delle stesse società, di affari gemelli e tutti i principali progressi realizzati nella scienza bellica si trasferiscono immediatamente nella tecnologia della pace e i beni di consumo compiono salti di qualità davvero giganteschi.
In Unione Sovietica non avviene niente di tutto questo, si tratta di due compartimenti stagni e il sistema di sviluppo scientifico del settore militare serve molto limitatamente per quello civile. Questi errori, giustificabili nella società sovietica, la prima ad avviare l’esperimento, si trapiantano in società ben più sviluppate, o semplicemente diverse, e si arriva a un vicolo cieco provocando reazioni degli altri Stati. Il primo paese a ribellarsi è stato la Jugoslavia, seguita poi dalla Polonia e in questa direzione stanno andando la Germania e la Cecoslovacchia, lasciando da parte per le sue particolari caratteristiche la Romania. Che cosa succede? Si rivelano ostili al sistema, ma nessuno ha indagato dove stia la radice del male; lo si attribuisce alla pesante tara burocratica, all’eccessivo accentramento degli apparati, si lotta contro la loro centralizzazione e le imprese ottengono una serie di vittorie e un’autonomia sempre crescente nella lotta per un libero mercato.
Chi si batte per questo? Lasciando da parte gli ideologi e i tecnici che, da un punto di vista scientifico, analizzano il problema, le stesse unità produttive, le più efficienti, rivendicano la loro indipendenza. La cosa somiglia straordinariamente alla lotta che conducono i capitalisti contro gli Stati borghesi che controllano determinate attività. I capitalisti concordano che lo Stato debba avere qualcosa, e questo qualcosa sono i servizi nei quali non si guadagna o che servono all’intero paese, ma tutto il resto deve stare in mani private. Lo spirito è lo stesso; oggettivamente, lo Stato comincia a diventare uno Stato che tutela i rapporti tra capitalisti. Naturalmente, per misurare l’efficienza si sta utilizzando in misura crescente la legge del valore, che è la legge fondamentale del capitalismo; è la legge che accompagna, che è intimamente connessa alla merce, cellula economica del capitalismo. Acquisendo la merce e la legge del valore le loro piene attribuzioni, si produce il riassetto dell’economia in accordo con l’efficienza dei diversi settori e delle diverse unità e quei settori e quelle unità che non sono abbastanza efficienti spariscono.
Si chiudono fabbriche ed emigrano lavoratori jugoslavi (ed ora polacchi) verso i paesi dell’Europa occidentale in piena espansione economica. Sono schiavi che i paesi socialisti inviano come offerta allo sviluppo economico del Mercato Comune Europeo.
Noi pretendiamo che il nostro sistema raccolga le due linee di fondo del pensiero da seguire per arrivare al comunismo. Il comunismo è un fenomeno di coscienza, non vi si arriva mediante un salto nel vuoto, una trasformazione della qualità produttiva o il semplice scontro tra forze produttive e rapporti di produzione. Il comunismo è un fatto di coscienza e occorre sviluppare tale coscienza nell’essere umano, di cui l’educazione individuale e collettiva al comunismo è una parte ad esso consustanziale. Non possiamo parlare in termini quantitativi economicamente; forse potremmo essere nelle condizioni di pervenire al comunismo entro alcuni anni, prima che gli Stati Uniti siano usciti dal capitalismo. Non possiamo misurare in termini di risorse pro capite la possibilità di entrare nella fase comunista; non esiste una totale coincidenza tra queste risorse e la società comunista. La Cina ci metterà centinaia di anni per avere il reddito pro capite degli Stati Uniti. Pur considerando che il reddito pro capite sia un’astrazione, se si misura il salario medio degli operai nordamericani, anche tenendo conto dei disoccupati, dei negri, quel tenore di vita è talmente elevato che alla maggior parte dei nostri paesi costerà molto raggiungerlo. Eppure, ci stiamo incamminando verso il comunismo.
L’altro aspetto è quello della tecnica; coscienza più produzione di beni materiali è comunismo. Bene, ma che cos’è la produzione se non lo sfruttamento sempre maggiore della tecnica; e che cos’è lo sfruttamento sempre maggiore della tecnica se non la concentrazione sempre più favolosa di capitali, cioè una concentrazione crescente di capitale fisso o lavoro congelato rispetto al capitale variabile o lavoro vivo. È il fenomeno che si sta manifestando nel capitalismo sviluppato, nell’imperialismo. L’imperialismo non è crollato grazie alla sua capacità di estrarre profitti, risorse, dai paesi dipendenti, e di esportarvi conflitti, contraddizioni, grazie all’alleanza con la classe operaia degli stessi paesi sviluppati contro l’insieme di quelli dipendenti. Nel capitalismo sviluppato ci sono i germi tecnici del socialismo ben più che nel vecchio sistema del cosiddetto calcolo economico, a propria volta erede di un capitalismo ormai superato in sé e che è stato però preso a modello dello sviluppo socialista.
Dovremmo, in fondo, guardare nello specchio in cui si stanno riflettendo una serie di tecniche produttive corrette che non sono ancora entrate in urto con i relativi rapporti di produzione. Si potrebbe argomentare che non lo hanno fatto per l’esistenza di questo sfogo che è l’imperialismo su scala mondiale, ma in definitiva questo implicherebbe alcune correzioni nel sistema e noi riprendiamo solo le linee generali. Per dare un’idea della straordinaria differenza pratica che c’è oggi tra il capitalismo e il socialismo si può citare il caso dell’automazione; mentre nei paesi capitalistici questa avanza fino ad estremi veramente vertiginosi, nel socialismo sono molto più arretrati. Si potrebbe parlare della serie di problemi che affronteranno i capitalisti nell’immediato futuro a causa della lotta dei lavoratori contro la disoccupazione, un fatto a quanto pare esatto, ma quel che è sicuro è che oggi il capitalismo si sviluppa su questa via più rapidamente del socialismo.
La Standard Oil, ad esempio, se ha bisogno di riammodernare una fabbrica, la ferma e dà ai lavoratori una serie di compensazioni. La fabbrica sta ferma un anno, installa i nuovi impianti e riprende con maggiore efficienza. Che cosa succede, finora, in Unione Sovietica? All’Accademia delle Scienze di quel paese si sono accumulati centinaia e forse migliaia di progetti di automatizzazione che non si possono tradurre in pratica perché i dirigenti delle fabbriche non si possono permettere il lusso che il loro piano stia fermo per un anno e trattandosi di un problema di realizzazione del piano a una fabbrica automatizzata richiederebbero una maggiore produzione, e allora in sostanza non le interessa l’aumento della produttività. Chiaro che la cosa si potrebbe risolvere dal punto di vista pratico concedendo maggiori incentivi alle fabbriche automatizzate; si tratta del sistema Libermann e dei sistemi che si stanno cominciando a impiantare nella Germania Democratica, ma tutto questo indica il livello di soggettivismo in cui si può cadere e l’assenza di precisione tecnica nel manovrare l’economia. Bisogna subire molti duri colpi della realtà per cominciare a cambiare; e cambiare sempre l’aspetto esteriore, quello più vistosamente negativo, ma non la sostanza reale delle difficoltà che ci sono oggi, e cioè una concezione sbagliata dell’uomo comunista, basata su una lunga esperienza che tenderà e tende a fare dell’uomo un fattore numerico di produzione economica tramite l’asse portante dell’interesse materiale.
Nella parte tecnica, il nostro sistema cerca di prendere quanto i capitalisti hanno di più avanzato e deve perciò tendere alla centralizzazione. La centralizzazione non equivale a un assoluto; per farla in maniera intelligente bisogna lavorare in accordo con le possibilità. Si potrebbe dire, centralizzare per quanto lo permettano le possibilità; questo guida la nostra azione. Questo consente un risparmio amministrativo, di manodopera, consente una migliore utilizzazione degli impianti avvalendoci di tecniche conosciute. Non si può fare una fabbrica di scarpe che, installata all’Avana, distribuisce il prodotto all’intera repubblica, perché in mezzo c’è un problema di trasporto. L’impiego della fabbrica, la sua dimensione ottimale dipendono dagli elementi di analisi tecnico-economici. Cerchiamo di arrivare ad eliminare, per quanto possibile, le categorie capitalistiche, per cui non consideriamo un atto mercantile il transito di un prodotto per fabbriche socialiste. Perché questo sia efficace dobbiamo operare l’intera ristrutturazione dei prezzi. Queste cose le ho pubblicate,[2] per cui non ho altro da aggiungere a quel poco che abbiamo scritto, salvo che dobbiamo indagare parecchio su questi punti. In sintesi, eliminare le categorie capitalistiche: merci tra imprese, interesse bancario, interesse materiale diretto come asse, ecc. e riprendere gli ultimi progressi amministrativi e tecnologici del capitalismo, questa è la nostra aspirazione.
Ci si può dire che tutte queste nostre presunzioni equivarrebbero anche a pretendere di avere qui, perché ce l’hanno gli Stati Uniti, un Empire State ed è ovvio che non possiamo avere un Empire State, ma possiamo certamente avere molti dei progressi che presentano i grattacieli nordamericani e le loro tecniche di costruzione, pur facendoli più piccoli. Non possiamo avere una General Motors che ha più impiegati dell’intero Ministero dell’Industria nel suo insieme, ma possiamo avere un’organizzazione, e di fatto la abbiamo, simile a quella della General Motors. Sul problema della tecnica amministrativa sta influendo la tecnologia; tecnologia e tecnica di amministrazione sono andate cambiando di continuo, intimamente connesse nel corso del processo di sviluppo del capitalismo, laddove nel socialismo si sono scisse come due diversi aspetti del problema ed uno di essi è rimasto completamente statico. Quando si sono resi conto dei grossolani errori tecnici nell’amministrazione, cercano nei dintorni e scoprono il capitalismo.
Insistendo, i due problemi di fondo che ci affliggono, nel nostro Sistema di Bilancio, sono la creazione dell’uomo comunista e la creazione dell’ambiente materiale comunista, due pilastri che stanno uniti attraverso l’edificio che debbono sorreggere. C’è una grossa lacuna nel nostro sistema; come integrare l’uomo al suo lavoro in maniera che non sia necessario ricorrere a quello che chiamiamo il disincentivo materiale, come far sì che ogni operaio senta l’esigenza vitale di sostenere la sua rivoluzione e che il suo lavoro, al tempo stesso, sia un piacere; che senta quello che noi tutti sentiamo qui in alto.
Se è un problema di campo visivo e soltanto chi ha la missione, la capacità del grande costruttore può interessarsi al lavoro che fa, saremmo condannati al fatto che un tornitore o una segretaria non lavorerebbero mai con entusiasmo. Se la soluzione stesse nella possibilità di sviluppo di questo stesso operaio in senso materiale, staremmo molto male.
Quel che è certo è che oggi non esiste una piena identificazione con il lavoro e credo che parte delle critiche che ci fanno siano ragionevoli, anche se non lo è il loro contenuto ideologico. E cioè: ci si rivolge la critica che i lavoratori non partecipano alla confezione dei piani, all’amministrazione delle unità statali, ecc., il che è vero, ma ne ricavano la conclusione che questo si debba al fatto che non sono materialmente interessati ad esse, che sono ai margini della produzione. Il rimedio che si ricerca per questo è che gli operai dirigano le fabbriche e siano responsabili di queste dal punto di vista monetario. che abbiano i loro incentivi e disincentivi d’accordo con la gestione. Credi stia qui il nocciolo della questione; per noi è sbagliato pretendere che gli operai dirigano le unità; nessun operaio deve dirigere le unità, uno tra tutti come rappresentante degli altri, se si vuole, ma rappresentante di tutti rispetto alla funzione che gli si assegna, alla responsabilità o all’onore che gli si conferisce, non come rappresentante di tutta l’unità di fronte alla grande unità dello Stato, in forma contrapposta. In una pianificazione centralizzata, corretta, è molto importante l’impiego razionale di ciascuno dei distinti elementi della produzione e la produzione che si farà non può dipendere da una assemblea di operai o dal criterio di un operaio. Naturalmente, quanto minor conoscenza vi sia nell’apparato centrale e nei vari livelli intermedi, l’intervento degli operai dal punto di vista pratico è molto utile.
Questo è un dato reale, ma la nostra pratica ci ha insegnato due cose secondo noi assiomatiche; un quadro tecnico ben collocato può fare ben di più di tutti gli operai di una fabbrica, e un quadro dirigente collocato in una fabbrica può cambiare completamente le caratteristiche di questa, in un senso o nell’altro. Gli esempio sono innumerevoli, e ormai li conosciamo nell’intera economia e non solo in questo Ministero. Torna a riproporsi ancora una volta il problema: perché un quadro dirigente può cambiare tutto? Perché fa lavorare tecnicamente, vale a dire amministrativamente meglio l’intero complesso dei suoi impiegati, o perché offre partecipazione a tutti gli impiegati in modo che questi sentano uno spirito nuovo, provino un nuovo entusiasmo lavorativo, o per il combinarsi di entrambe le cose? Noi non abbiamo ancora trovato risposta e credo che la cosa vada ancora studiata un po’ di più. La risposta deve essere intimamente connessa all’economia politica di questa fase e anche il modo in cui si affrontano queste questioni deve essere organico e coerente con l’economia politica .
(fine)
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